Giuseppe Ierolli

MOSÈ E MAOMETTO: DA NAPOLI A PARIGI


Cap. 1

ROSSINI A PARIGI

Note biografiche

"Rossini dit-on, va passer à Paris en décembre 1823, pour aller écrire un opéra nouveau à Londres; il serait beau de l'arrêter au passage":1 così scrive Stendhal nel suo libro su Rossini dello stesso anno. Questo augurio, che per Stendhal significava la speranza di vedere il suo compositore preferito misurarsi in loco con il pubblico e la critica francese, con un esito che per lo scrittore era scontato, si avvererà pienamente, e non solo con uno dei tanti contratti che il cosmopolitismo parigino concedeva a molti artisti stranieri. Infatti l'ultima opera scritta da Rossini per un teatro italiano sarà la Semiramide, andata in scena il 3 febbraio 1823 al Teatro La Fenice di Venezia, e il breve soggiorno parigino durante il viaggio verso Londra si trasformerà in un rapporto duraturo, che coinvolgerà la vita artistica e personale del compositore.

Proprio dopo la prima rappresentazione di Semiramide Rossini conclude gli accordi, avviati già nel 1822, con Giovanni Battista Benelli, che aveva l'incarico di gestire la stagione del King's Theatre. Rossini avrebbe dovuto scrivere una nuova opera per il teatro londinese, ma questo lavoro, di cui si sa che doveva chiamarsi Ugo re d'Italia e che fu solo iniziato, non vide mai la luce a causa delle disastrose condizioni in cui si trovava il teatro per il completo fallimento della gestione di Benelli, che sparì da Londra a conclusione della stagione del 1824. Rossini, vista l'impossibilità di scrivere un'opera nuova, si adattò molto velocemente alle abitudini musicali degli aristocratici inglesi, che lo pagavano profumatamente solo per il piacere di averlo come accompagnatore di cantanti nei loro salotti.

In questo modo il fallimento artistico del viaggio a Londra venne compensato da una notevole somma di denaro che Rossini guadagnò, forse per la prima volta, con molta facilità, scrivendo solo qualche melodia per gli albums delle ricche londinesi, e una cantata in onore di Byron. Il compositore lasciò l'Inghilterra alla fine di luglio del 1824 e ritornò a Parigi.

Durante la sosta precedente il soggiorno londinese, Rossini era stato accolto con tale entusiasmo dai parigini che le innumerevoli feste, ricevimenti, concerti e rappresentazioni teatrali che furono organizzate in suo onore, gli procurarono anche molti nemici, sia fra i difensori dell'"arte francese", sia tra chi, come Ferdinando Paër, allora direttore del Théâtre Italien, si sentiva minacciato dal successo e dalla popolarità di Rossini. Già durante questo breve soggiorno il Ministro della Real Casa offrì a Rossini la direzione del Théâtre Italien, ma il compositore rifiutò, forse per non inimicarsi troppo Paër, ma probabilmente anche perché in quel periodo l'interesse maggiore era rivolto al viaggio a Londra e Rossini preferiva rimandare ogni impegno preciso con le istituzioni musicali parigine al suo ritorno dall'Inghilterra. Nell'agosto del 1824 Rossini torna dunque a Parigi, dove risiederà stabilmente fino al 1829, anno in cui compose la sua ultima opera, e dove, dal 1855 al 1868, passerà gli ultimi anni della sua vita.

Il 26 novembre 1824 Rossini firmò il contratto per la direzione del Théâtre Italien, che prevedeva la permanenza di Paër come direttore aggiunto; naturalmente questa condizione, voluta certamente da Rossini per riguardo all'ormai anziano compositore, non fu certo accettata di buon grado da quest'ultimo, che cercò in ogni modo di ostacolare il lavoro del rivale.2

Il primo lavoro parigino di Rossini fu Il viaggio a Reims, rappresentato in forma di cantata scenica il 19 giugno 1825 al Théâtre Italien, in occasione delle feste organizzate a Parigi per l'incoronazione di Carlo X, avvenuta a Reims il 29 maggio 1825. L'opera ebbe solo quattro repliche nel corso di quell'anno e fu rappresentata altre due volte in adattamenti non autorizzati: il 26 ottobre 1848 al Théâtre Italien con il titolo Andremo a Parigi?, in onore della rivoluzione, e il 26 aprile 1854, in occasione delle nozze di Francesco Giuseppe I con Elisabetta di Baviera, a Vienna con il titolo Il viaggio a Vienna. Dopo questi due pastiches l'opera fu considerata perduta e solo recentemente sono state ritrovate parti dell'autografo che, con i pezzi usati successivamente nel Comte Ory, ne hanno permesso la ricostruzione e la prima rappresentazione moderna all'Auditorium Pedrotti di Pesaro il 18 agosto 1984.3

Nei mesi successivi Rossini si dedicò al suo incarico di direttore, facendo rappresentare molte opere, sia sue sia di altri compositori, al Théâtre Italien, e contemporaneamente si preparò al debutto vero e proprio sulle scene parigine, debutto che avrà luogo non con un'opera nuova ma con un rifacimento. Infatti il 9 ottobre 1826 al Théâtre de l'Académie Royale de Musique, più brevemente l'Opéra, fu rappresentato Le siège de Corinthe, che era una rielaborazione di un'opera del periodo napoletano, il Maometto II, composto nel 1820. L'opera ebbe un grande successo e Rossini, nominato "Compositore di S.M. e Ispettore generale del canto in tutti i Regi Stabilimenti Musicali", lasciò la direzione del Théâtre Italien per dedicarsi interamente alla composizione.

Dal 1827 al 1829 Rossini scriverà altri tre lavori per l'Opéra: Moïse et Pharaon, 26 marzo 1827, rifacimento del Mosè in Egitto, scritto a Napoli nel 1818; Le Comte Ory, 20 agosto 1828, nel quale utilizzò diversi pezzi del Viaggio a Reims, e Guillaume Tell, 3 agosto 1829, unico lavoro francese interamente originale e ultima opera teatrale del pesarese. Tutte le opere composte a Parigi ebbero un grande successo, solo il Guillaume Tell lasciò il pubblico della prima un po' interdetto, ma non tardò ad essere considerato un capolavoro, anche se, a causa della lunghezza giudicata eccessiva, fu molto spesso rappresentato in più serate o con molti tagli. Rossini fu colmato di onori, gli furono conferite innumerevoli decorazioni e cariche onorifiche e gli fu addirittura accordata una pensione vitalizia non condizionata alla composizione di nuove opere. Dopo essersi impegnato a scrivere un'opera nuova ogni due anni, il compositore partì, nell'agosto del 1829, per Bologna. La partenza da Parigi coincide con l'inizio del "grande silenzio" rossiniano, silenzio che, anche se interrotto da molte composizioni non operistiche, si protrarrà per circa quaranta anni, fino alla sua morte.

L'ambiente musicale

L'ambiente musicale parigino dei primi anni dell'Ottocento era caratterizzato per un verso da un forte nazionalismo, che difendeva il primato del gusto francese soprattutto contro gli "italianismi", accusati di compromettere la tradizione francese, per l'altro dal radicato cosmopolitismo di una cultura sempre pronta ad accogliere influenze straniere, pur riconducendole, molte volte con qualche forzatura, nell'alveo del gusto francese. La storia musicale della capitale francese presenta innumerevoli esempi di compositori stranieri, perlopiù tedeschi e italiani, che subirono, ma al tempo stesso influenzarono e trasformarono, le concezioni musicali francesi.

Le polemiche musicali di quel tempo non erano molto dissimili da quelle del secolo precedente, la "querelle des bouffons", la contrapposizione tra i sostenitori di Gluck e quelli di Piccinni, in definitiva la divisione tra i rigidi fautori della tradizione francese e gli ammiratori dell'opera italiana, era ancora viva nei primi anni dell'Ottocento e l'enorme successo che Rossini ebbe sulle scene parigine acutizzò questo secolare contrasto. Molti musicisti francesi si sentivano defraudati da questo italiano che, come molti altri stranieri prima di lui, monopolizzava il gusto musicale, imponendo una musica che, non si poteva negarlo, aveva una enorme presa sul pubblico.

Ma non era solo il pubblico ad amare Rossini, e, come alcuni decenni più tardi un poeta, Baudelaire, doveva diventare un fervente wagneriano, il più acceso tra gli ammiratori francesi di Rossini era uno scrittore, Stendhal. Il suo libro su Rossini, scritto nel 1823, non è solo una esaltazione del genio del musicista pesarese, è anche una difesa ad oltranza del costume musicale italiano di quegli anni, una difesa che pone in primo piano l'esaltazione del canto e, di conseguenza, dei cantanti. Rossini è visto come il compositore che, più di ogni altro, riesce a far "cantare" gli interpreti, coniugando magistralmente bellezza melodica e virtuosismo.

In quegli anni una tradizione consolidata faceva sì che il cantante fosse in Italia al primo posto nei favori del pubblico; i compositori, o meglio la maggior parte di essi, si limitavano a produrre, quasi in serie, le novità che ogni anno servivano a riempire le stagioni dei teatri, il più delle volte lavorando frettolosamente su libretti già musicati da altri o che ripetevano più o meno le medesime situazioni. Lo stesso Rossini, durante il periodo di permanenza a Napoli, quando era già un compositore affermato, guadagnava molto meno dei cantanti del San Carlo.

Era inoltre di là da venire la concezione di un'opera musicale compiutamente conclusa una volta terminata la stesura della partitura, che "...in quanto sussidio per l'esecuzione...era, per definizione e quasi senza limiti, variabile: dipendeva dalle condizioni, diverse di volta in volta e di luogo in luogo. Adattarla alle risorse dei cantanti e delle orchestre e alle aspettative del pubblico non era considerato, come poi fu nel secondo Ottocento, lesivo dell'integrità d'un testo propriamente inviolabile - una deturpazione tollerata solo per necessità e controvoglia - ed era invece una forma normale ed esteticamente legittima di commercio con un materiale scritto destinato ad uno scopo preciso: fungere da substrato d'una specifica esecuzione."4

Questa prassi, dovuta ad una pretesa acquiescenza nei confronti di esigenze che oggi chiameremmo "commerciali", e che ad un'analisi superficiale potrebbe sembrare causa di immobilismo, contribuì invece a porre in rilievo la struttura "musicale" dei numeri dell'opera lirica. Nell'arco di alcuni decenni, lentamente ma con continuità, a fronte di un sostanziale immobilismo dell'intreccio, la struttura musicale si allontanò sempre di più dalla staticità del pezzo chiuso settecentesco e l'aria, uno dei topoi dell'opera seria italiana, assunse nuove forme, cedendo sempre più spazio agli ensembles, che, sempre più importanti nell'economia dell'opera, molto spesso erano utilizzati come contenitori di quelli che in precedenza erano pezzi compiutamente solistici, con un conseguente arricchimento degli strumenti formali a disposizione dei musicisti.

In questo processo di allargamento delle forme settecentesche ebbe un'importanza fondamentale la coeva opera buffa, che utilizzava, già nel Settecento, molte strutture formali che furono poi trapiantate nell'opera seria. Naturalmente questa progressiva assimilazione di forme provenienti da un altro genere, ritenuto certamente meno importante, tanto che la carriera di un compositore, Rossini incluso, prevedeva di norma un inizio con l'opera buffa e solo successivamente la composizione di opere serie, che erano le sole ritenute degne di consacrare la fama di un musicista, avvenne con gradualità, tenendo conto delle esigenze di rinnovamento ma anche considerando il grande prestigio che una ormai consolidata prassi compositiva annetteva alle forme dell'opera seria, la cui aristocratica alterigia non poteva essere troppo scopertamente offesa dalla plebea opera buffa. Lo sviluppo, in gran parte "musicale" dell'opera italiana, si deve probabilmente proprio alla tradizione che privilegiava la "musica" sulle "parole" e permetteva ai compositori di tentare nuove strade nell'ambito delle strutture musicali, senza preoccuparsi troppo del rapporto di queste con l'intreccio drammatico.

Questa concezione era lontana dai gusti dei francesi che, almeno teoricamente, ritenevano essenziale in un'opera la presenza di un testo che avesse un valore autonomo. Stendhal cita molte volte questa predilezione dei suoi compatrioti per il valore letterario di un libretto; nel capitolo dedicato al Turco in Italia si può leggere che "...aux premières représentation d'un opéra, les applaudissements accordés au chanteur et au maestro sont toujours parfaitement distincts. On sent bien qu'il n'est pas question du poëte. Il faut être littérateur français pour s'aviser de juger un opéra par la mérite des paroles".5 Frecciate polemiche di questo tipo sono molto frequenti nel suo libro.

L'esistenza di tali prevenzioni, più che altro teoriche, verso la musica italiana, non aveva impedito alle opere di Rossini di essere frequentemente rappresentate a Parigi, con un successo che appare evidente se si considera l'entusiasmo con cui il pesarese fu accolto nella capitale francese. I parigini, già conquistati dalle opere italiane di Rossini, gli chiedevano adesso di compiere quella mediazione tra le due culture musicali che avrebbe inserito il compositore italiano in uno spazio più internazionale e permesso ai suoi ammiratori di non sentirsi più in colpa verso le loro tradizioni.

La mediazione che Rossini dovette affrontare fu certamente facilitata dal fatto che l'evoluzione "musicale" dell'opera italiana aveva necessariamente comportato anche un parallelo cambiamento della struttura del dramma, che si era adattato alle nuove situazioni musicali. La presenza di numerosi ensembles, durante i quali si svolgeva l'azione prima riservata esclusivamente ai recitativi, aveva costretto i librettisti ad una maggiore collaborazione con i compositori, i quali avevano bisogno di libretti che, sia pure trattando gli stessi argomenti, avessero una struttura drammatica diversa dal classico dramma metastasiano, una struttura più rispondente ai nuovi criteri musicali.

Questa evoluzione, se da una parte può essere vista come un naturale, e pur sempre subordinato, adattamento della struttura del dramma ai cambiamenti della struttura musicale, e pertanto ricondotta all'interno della tradizione italiana, da un altro punto di vista può anche significare un avvicinamento alle concezioni francesi, tanto che "Rossini non ebbe tanto da faticare nel rendere gradevoli ai parigini il Mosè e il Maometto II, poiché questi suoi capolavori, scritti per Napoli, contengono già nella loro prima versione molte caratteristiche per le quali poi Rossini a Parigi era completamente up to date nel senso francese."6 Tanto più giusta appare questa considerazione se si tiene presente che tra Italia e Francia c'era stato e continuava ad esserci un continuo scambio culturale. Se all'evoluzione dell'opera seria italiana avevano contribuito in misura non indifferente le opere francesi composte tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, in particolare quelle degli italiani Cherubini e Spontini, la già ricordata influenza dell'opera buffa aveva avuto esiti non solo in Italia, ma innegabilmente aveva condizionato l'evoluzione dell'opéra-comique e della tragédie lirique, creando una catena di influenze reciproche nella quale è problematico stabilire una gerarchia, se non in periodi di tempo ben delimitati. Infatti, riferendoci all'opera francese, si può dire con Dahlhaus che "Alla luce dello stretto rapporto che corre tra la musica e la spettacolarità, sarebbe esteticamente meschino disprezzare come mera 'esteriorità' i tableaux, i rituali, i cortei e le danze che non di rado nella tragédie lirique del XVIII e nel grand opéra del XIX secolo preponderano rispetto agli eventi in senso stretto drammatici: quasi si trattasse di efflorescenze selvagge che soffocano 'l'essenza' dell'opera in quanto dramma musicale. Spettacolarità e drammaticità hanno, nell'opera, egual diritto: un diritto sancito dalla musica, capace di dare specifica efficacia scenica all'una come all'altra."7 Ebbene, è sufficiente intendere quelle "efflorescenze selvagge" come equivalente delle tanto deprecate libertà interpretative concesse ai cantanti dall'opera italiana, per trovare agevolmente una delle tante contiguità fra tradizioni apparentemente così distanti.

Così l'acceso antagonismo tra la cultura musicale francese e quella italiana, quale si può rilevare sia dalle feroci critiche di molti francesi alla musica di Rossini, sia dagli scritti di chi, Stendhal in prima fila, esaltava le prime opere del pesarese come le più aderenti alla tradizione "melodica" dell'opera italiana, sembra più un residuo di tempi passati, una difesa ad oltranza di caratteristiche nazionali che nei fatti esistevano ormai in gran parte solo nelle dispute teoriche e non più nella prassi compositiva.

Nei cinque anni che vanno dall'arrivo a Parigi alla prima del Guillaume Tell, Rossini riuscì a diventare l'incontrastato dominatore della vita musicale francese, e l'analisi delle opere composte in questo periodo dimostra che il successo che ebbero questi lavori non era dovuto né ad una francesizzazione del compositore italiano, né ad una italianizzazione del gusto francese; molto semplicemente Rossini compose le sue opere tenendo conto di scriverle per un teatro francese e con il vantaggio di poter lavorare senza le assillanti costrizioni temporali dettate dal costume teatrale italiano. Per capire l'itinerario compiuto da Rossini sarà interessante porre l'attenzione sui due rifacimenti compiuti per le scene parigine, in quanto la possibilità di avere dei precisi riferimenti in opere del periodo italiano renderà certamente più agevole il confronto.


Frontespizio

Cap. 1 - Rossini a Parigi

Cap. 2 - Maometto II

Cap. 3 - Le siège de Corinthe

Cap. 4 - Mosè in Egitto / Moïse et Pharaon

Cap. 5 - I rifacimenti e la critica

Note

Bibliografia consultata


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