MOSÈ E MAOMETTO: DA NAPOLI A PARIGI Cap. 3 LE SIÈGE DE CORINTHE Le siège de Corinthe rappresenta il primo approccio di Rossini con un opera scritta in francese per un pubblico francese. Anche se naturalmente il compositore italiano non era uno sconosciuto per i parigini, anzi la sua popolarità era enorme a giudicare dall'entusiasmo con cui fu accolto, sino a quel momento tutte le sue opere rappresentate a Parigi erano state scritte per l'Italia, con l'eccezione del Viaggio a Reims, che però, oltre ad essere un pezzo d'occasione scritto per l'incoronazione di Carlo X (ma di altissimo valore), era in italiano. Rossini aveva naturalmente ben presente l'importanza del suo "debutto" a Parigi, una città che all'epoca creava o confermava a livello europeo la fama di un musicista; forse proprio per questa esigenza di partire col piede giusto, preferì presentarsi non con una composizione nuova, ma col rifacimento di un'opera composta nel pieno del suo periodo napoletano, un opera che doveva essere tenuta in grande considerazione dal suo autore, visto l'importante ruolo che era chiamata ad adempiere. La scelta di operare un rifacimento anziché scrivere un'opera nuova ha una sua logica ineccepibile, oltre ad essere un sintomo di prudenza; l'avere praticamente pronto il materiale musicale permise a Rossini di dedicarsi con più tranquillità ai problemi derivanti dall'uso di una lingua straniera e dalla necessità di presentare un prodotto che, pur essendo tipicamente rossiniano, fosse in linea con le esigenze del pubblico francese. La scelta di quest'opera fu probabilmente anche influenzata dal fatto che il Maometto II aveva già subito un rifacimento; nel 1823 Rossini aveva avuto l'incarico di scrivere un'opera nuova per il Gran Teatro La Fenice di Venezia (sarà la Semiramide) e di presentare un altro lavoro scritto in precedenza e adattato alle scene veneziane (appunto il Maometto II). In questa occasione i cambiamenti apportati all'opera non furono limitati, come era nella norma, all'aggiunta (o alla soppressione) di qualche pezzo, in funzione della compagnia di canto disponibile; la revisione fu invece molto profonda, tanto da sembrare retrospettivamente una preparazione a ciò che avverrà tre anni dopo per le scene parigine. È opportuno perciò, prima di affrontare Le siège de Corinthe, dar conto delle differenze fra le due versioni "italiane" del Maometto II.16 Nell'edizione veneziana l'opera inizia con una sinfonia, non presente a Napoli, strutturata esattamente come la "sinfonia-archetipo", descritta da Gossett nel suo saggio sulle sinfonie di Rossini:17 Sezione introduttiva lenta (btt. 1-43) Sezione principale veloce:
Breve modulazione (btt. 177-184) Ripresa: primo tema
(btt. 185-220)
Rossini utilizza qui due temi della scena e aria: "Non temer, d'un basso affetto", precisamente la prima parte della scena nel maestoso iniziale e la cabaletta: "E d'un trono alla speranza" nel secondo tema. Segue l'introduzione: "Al tuo cenno, Erisso", identica all'inizio dell'opera a Napoli, e la scena e coro "In oriente la bell'aurora", dove la scena è quella che precedeva la cavatina di Anna, "Ah, che invan su questo ciglio", qui soppressa, e il coro deriva da "Dell'oriente l'astro del giorno" dell'Ermione. Nei pezzi successivi: scena e quartetto "Oh! come l'alma oppresse"; scena e coro "Misere! or dove ahimè"; preghiera "Giusto ciel, in tal periglio"; scena e terzetto "Figlia...mi lascia", è ripreso quasi integralmente il "terzettone", con l'eccezione del terzettino "Ohimè! qual fulmine", sostituito dal quartetto "Oh! come l'alma oppresse", in cui ad Erisso, Anna e Calbo, si aggiunge Condulmiero, che nel Maometto napoletano agiva solo nell'introduzione. Quest'ultimo non è però un pezzo nuovo, deriva dal quartetto "Cielo! il mio labbro ispira" di Bianca e Falliero, con dei cambiamenti nei particolari che interessano soprattutto la seconda sezione, l'allegro "Ah! tu vedi l'acerba mia pena". La parte finale del primo atto: coro "Dal ferro, dal foco" e cavatina "Sorgete! in sì bel giorno", scena e coro "Signor, di liete nuove", scena e finale I "Giusto ciel, che strazio è questo", riprendono i corrispondenti pezzi napoletani, con l'eccezione della cabaletta (a Napoli "Ah! perché fra le spade nemiche", a Venezia "Ah! la morte fra i nemici") in cui è utilizzato un nuovo tema, e del concertato finale, che usa lo stesso tema modificato ritmicamente. Il secondo atto si apre, come a Napoli, con il coro "È follia sul fior degli anni", cui segue la scena e duetto "Anna tu piangi". In questo duetto è stata inserita la situazione drammatica della successiva aria di Maometto "All'invito generoso", inserimento che ha comportato naturalmente alcune modifiche nella struttura del pezzo. Le prime due sezioni: allegro giusto e andantino, rimangono uguali, mentre nella cabaletta viene usato anche materiale tematico dell'aria soppressa. La parte finale dell'opera è quella che ha subito le modifiche più ampie, infatti fino a questo momento lo svolgimento dell'azione aveva ricalcato abbastanza fedelmente l'originale napoletano; da qui in poi le modifiche non riguardano più solo la struttura interna dei numeri, ma sono finalizzate a preparare il cambiamento più appariscente fra le due versioni: il finale tragico che diventa lieto. A Napoli, dopo il duetto Anna-Maometto e l'aria di quest'ultimo che si avvia alla battaglia finale, abbiamo la scena e aria "Non temer, d'un basso affetto", il terzettino "In questi estremi istanti" ed il finale, quasi interamente dedicato al consapevole sacrificio dell'eroina. A Venezia resta l'aria di Calbo, preceduta da una scena che utilizza solo alcuni frammenti del corrispondente pezzo napoletano. L'arrivo di Anna ed il terzettino sono soppressi; visto il diverso finale non serve più la scena d'addio fra padre e figlia e l'unione con Calbo benedetta da Erisso, celebrata simbolicamente sul sepolcro della madre di Anna, che libera finalmente la protagonista dalla colpevole passione per il nemico. A Venezia c'è invece a questo punto un pezzo nuovo, il terzetto "Pria svenar con ferme ciglia"; nel sotterraneo arriva Maometto che tenta ancora di offrire la salvezza ad Erisso per amore di Anna, ma viene sprezzantemente respinto dal comandante veneziano e sfidato da Calbo, che rivela di non essere il fratello ma lo sposo di Anna. Il terzetto è diviso nelle usuali tre sezioni: allegro - andante - allegro, nelle quali le fasi del dialogo sono sottolineate non da una differenziazione di temi fra i tre personaggi, che infatti utilizzano gli stessi periodi musicali (uno per le prime due sezioni, due per la terza), ma dalla diversa disposizione delle entrate. Nella prima sezione: allegro in do maggiore, è Erisso che predomina respingendo con orgogliosa fermezza le offerte di Maometto, che rivendica con altrettanto orgoglio il suo stato di vittorioso conquistatore; Calbo interviene solo alla fine di questa prima parte, quando la rivelazione della sua vera identità gli permette di sfidare apertamente il nemico. Il libretto rende con molta precisione questo colpo di scena (per Maometto e non per lo spettatore):
Di contender fia capace Anna al braccio, al valor mio! (comparisce Calbo, e avanzandosi con fierezza, e dignitoso) Calbo Io, tiranno,
e trema.
L'elaborato finale napoletano viene praticamente soppresso, rimane solo il coro: "Nume, cui il sole è trono", preceduto da una scena che utilizza la prima parte della scena che precedeva a Napoli l'aria di Calbo. Il finale è identico a quello della Donna del lago e trasforma l'originale finale tragico nel lieto fine, così caro al pubblico (ottocentesco?). Nel libretto stampato per l'esecuzione veneziana si dà anche una giustificazione storica per questo cambiamento, che, anche se all'epoca molto frequente, evidentemente metteva sempre un po' in imbarazzo gli autori: "Onde togliere l'orrore della storica catastrofe venne condotto il Melo-dramma a lieto fine, appoggiandosi ai primi luminosi successi dei Veneti, da Langer riferiti tomo 7. lib.26. della Storia di Venezia". Dunque Rossini sceglie proprio quest'opera per il suo ingresso all'Opéra, un lavoro non molto famoso che non aveva certo avuto le trionfali accoglienze dei suoi lavori più celebri, ma che era probabilmente visto dal musicista come uno strumento adatto ad una prima esplorazione che non poteva permettersi di essere un insuccesso. Certamente non rimasero estranee alla scelta le vicende narrate nel libretto; in quei giorni a Parigi si seguivano con estrema attenzione e partecipazione le vicende della guerra di indipendenza greca contro il dominio turco. La dichiarazione di indipendenza del 1° gennaio 1822 non pose fine ad una guerra che si protrasse ancora per alcuni anni, tanto che la Grecia dovette attendere il 1830 per vedere riconoscere la propria sovranità dagli Stati europei. Nel 1826 si era perciò ancora nel pieno della questione che, oltre alla conquista della libertà da parte di un paese oppresso, metteva in gioco la secolare rivalità fra l'occidente cristiano e gli infedeli Turchi. In questo contesto l'argomento del Maometto II, pur narrando avvenimenti trascorsi da quattro secoli, era di estrema attualità; per renderlo ancora più aderente agli avvenimenti di quegli anni sarebbe bastato, e così fu, sostituire i veneziani con i greci e, arretrando l'azione di dodici anni, Negroponte con Corinto. Un accenno alla guerra di indipendenza greca c'era comunque già stato in un'opera di Rossini; nell'undicesima scena del Viaggio a Reims la canzone che Corinna intona e accompagna con l'arpa fa esplicito riferimento alla Grecia, con una connotazione tuttavia più religiosa che nazionalista:
Lotta falcata luna Ma al sacro ardir fortuna Propizia ognor sarà Come sul Tebbro e a Solima, Foriera di vittoria, Simbol di pace e gloria La croce splenderà. Come abbiamo visto, nel passaggio da Napoli a Parigi e da Negroponte a Corinto, i personaggi veneziani hanno cambiato nome e nazionalità, come si può notare nello schema che segue:
Rispetto al Maometto II c'è un personaggio in meno: Condulmiero, che non aveva comunque una funzione propria e può scomparire senza lasciare traccia; più importanti, uno è poi fondamentale, sono i personaggi aggiunti: Adraste, Ismène e Hiéros. Quest'ultimo ha la funzione di catalizzatore della rinnovata parte "pubblica" dell'opera; sostituisce Condulmiero nell'introduzione, con un atteggiamento opposto alla prudenza del generale veneziano, e nel finale è colui che guida i greci al sacrificio, infiammandoli con il ricordo di Leonida e Maratona. Le siège de Corinthe inizia con una sinfonia che si scosta dalla sinfonia-archetipo, la cui struttura era stata integralmente seguita nell'analogo pezzo composto per la revisione veneziana. A Parigi l'introduzione lenta è sostituita da un Allegro vivace (tratto da Bianca e Falliero) e dalla "Marche lugubre greque", che si rifà ad un Salmo di Benedetto Marcello già ripreso nell'Atalia di Mayr. Nella sezione principale è omesso il crescendo, che dovrebbe seguire il secondo tema; al suo posto troviamo un periodo, che deriva dalla Messa di Gloria, usato anche nel Finale del secondo atto. La ripresa presenta una struttura anomala, in quanto la modulazione che la precede non conduce al primo tema ma direttamente al ponte e al secondo tema. È evidente che anche in questo caso la base di partenza è la sinfonia-archetipo ma "le limitazioni che Rossini stesso decise per le sue sinfonie italiane mature, limitazioni di cui si era sbarazzato a Napoli ma di cui fece nuovamente uso nell'ultima stagione a Venezia, sono state qui nuovamente abbandonate... Mentre i compositori francesi stavano introducendo nelle loro sinfonie i crescendo e gli altri stratagemmi strutturali di Rossini, egli li stava abbandonando."18 La sinfonia de Le siège de Corinthe sarà l'ultima riconducibile alla sinfonia-archetipo; nel Guillaume Tell la struttura in quattro tempi e l'esistenza di un "programma" che differenzia le varie sezioni, faranno dell'ultima sinfonia rossiniana un unicum, nei confronti del quale l'aggancio con il passato viene senz'altro superato dall'evoluzione verso il nuovo. L'introduzione: "Ta noble voix, seigneur" è praticamente identica al corrispondente pezzo napoletano, con cambiamenti nell'alternarsi dei personaggi dovuti alla sostituzione di Condulmiero (di secondo piano e senza una funzione nell'economia dell'opera) con Hiéros, che è invece, come abbiamo visto, uno dei principali protagonisti della versione parigina. Significative variazioni si hanno nella linea di canto, che viene semplificata con la soppressione di molte fioriture e adattata al cambiamento di registro vocale di Calbo (contralto a Napoli) che diventa Néoclès (tenore) a Parigi. Questo passaggio da un registro femminile ad uno maschile è facilmente spiegabile con la poca simpatia che il pubblico francese aveva verso le parti "en travesti" (a meno che non si trattasse di fanciulli), in quanto nel Siège non siamo ancora alla caratterizzazione "ottocentesca" dei timbri vocali che sarà invece chiaramente delineata nel Guillaume Tell. L'eliminazione di molti dei virtuosismi presenti nell'edizione napoletana, che non riguarda solo l'introduzione ma è comune a tutto il rifacimento, dà certamente l'idea di una linea vocale più aderente al graduale allontanamento dal belcanto che sarà una costante dell'evoluzione del melodramma. A questo proposito il giudizio dei biografi rossiniani è stato, fino a qualche tempo fa, univoco: il musicista a Parigi completa una naturale evoluzione verso l'opera romantica, lasciandosi decisamente alle spalle una delle caratteristiche più appariscenti, e più denigrate, dell'opera seria settecentesca: la lussureggiante ricchezza delle fioriture vocali, in una parola il "belcanto". Questo giudizio, che negli ultimi anni è stato rivisto alla luce di una più generale rivisitazione dell'opera seria italiana, presupponeva l'esistenza di una linea qualitativamente ascendente, una sorta di evoluzione darwiniana, con una gerarchia di valori crescenti che culmineranno negli esiti verdiani (o wagneriani) della seconda metà dell'Ottocento. In questo contesto appare giustificata l'avversione, ed il fastidio, di fronte alla persistenza del belcanto nella vocalità rossiniana, vista come un perdonabile errore di un musicista che aveva per altri versi preparato il terreno sul quale era poi cresciuta l'opera dell'Ottocento. Al di fuori di questa concezione gerarchica dell'evoluzione musicale, il graduale abbandono dei virtuosismi belcantistici va inquadrato come il naturale declino di una prassi che era stata alimentata dalle eccezionali possibilità tecniche dei castrati, e che non poteva certo restare immune dai cambiamenti derivanti dalle diverse concezioni estetiche che avevano ormai rivoluzionato le strutture dell'opera seria settecentesca. Per quanto riguarda Le siège, e le altre opere francesi di Rossini, lo sfoltimento del virtuosismo va anche ricondotto ad un più generale adeguamento alla cultura musicale francese, più attenta alla totalità dello spettacolo: la coreografia, la scenografia, le scene corali, rivestivano un importanza pressoché sconosciuta al pubblico italiano, per il quale il cantante, e di conseguenza il canto, era, e sarebbe stato ancora per molto, il soggetto al centro dell'attenzione. Al di là delle dispute teoriche c'è comunque da considerare che i cantanti che interpretavano per la prima volta le opere francesi di Rossini erano di scuola italiana; la Cinti-Damoreau aveva studiato con Angelica Catalani e Adolphe Nourrit con Manuel Garcia, e lo stile di canto di questi interpreti non differiva poi molto da quello che si ascoltava in Italia. A questo proposito sono illuminanti i quaderni di variazioni della Cinti-Damoreau, che contengono centosettantuno esempi di abbellimenti su arie tratte da opere di quasi tutti i maggiori compositori attivi e presenti sulle scene in quegli anni.19 I quaderni, dei quali uno è stato pubblicato nel 1849, danno un'idea abbastanza precisa di come i francesi, una volta a teatro, dimenticassero volentieri le ragioni del dramma di fronte alle ardite volate di un grande cantante, dandoci modo di conoscere una prassi esecutiva estesa a gran parte del repertorio della prima metà dell'Ottocento. Una prassi esecutiva la cui conoscenza smentisce, nei fatti, la pretesa scomparsa del virtuosismo nelle opere francesi di Rossini, ma soprattutto mette in luce l'ampia libertà che si concedevano i cantanti di fronte alla pagina scritta in un'epoca (ricordiamo che i quaderni sono stati scritti intorno alla metà dell'Ottocento) che, a leggere gli spartiti, sembrerebbe essersi lasciata alle spalle le esuberanti scritture vocali dei maestri italiani. Nell'introduzione le modifiche rispetto all'edizione napoletana non riguardano però solo la scrittura vocale, nel Maometto II la risposta ad Erisso, che chiede di scegliere fra l'amore e la pietà, è divisa in due parti: Condulmiero, preceduto dal coro che lo invita a pronunciarsi vorrebbe cedere alla preponderanza nemica, per ritemprare le forze e tentare la rivincita; Calbo respinge invece ogni tentennamento, preferendo la morte al disonore della resa, trascinando gli altri, e lo stesso Condulmiero, alla resistenza. Ne Le siège de Corinthe è il coro di guerrieri che invita alla momentanea resa, mentre Néoclès assume la parte di Condulmiero, già pronta per tenore, trasformando però il pavido pronunciamento del generale veneziano in un incitamento alla resistenza, ribadito subito dopo, sulle note che erano di Calbo, da Hiéros, presentato dal libretto come "vieillard, gardien des tombeaux", che assume fin da adesso il ruolo di intransigente difensore dell'onore e della libertà del popolo greco. In questa scena abbiamo un esempio di musica riutilizzata con un testo che esprime sentimenti opposti, meno famoso ma simile all'aria di Elcia del Mosè in Egitto: "Tormenti! affanni, smanie!", una tipica aria "di furore", che nel Moïse et Pharaon diventa "Je dois a ta tendresse", un aria in cui Sinaïde, moglie del faraone, esprime la propria gioia di fronte al figlio che rinuncia (momentaneamente) all'odio verso Mosè. Da questa disinvoltura nei confronti del rapporto musica-parole si comprende che Rossini non temeva di servirsi di musica composta precedentemente adattandola senza molti scrupoli ad un testo che esprime sentimenti diversi (come abbiamo visto anche opposti) da quelli presenti nell'originale; un procedimento che può far pensare ad una sorta di intercambiabilità tra parole e musica, dovuta ad una prassi compositiva che annetteva poca importanza al rapporto fra il testo e la melodia vocale, privilegiando decisamente quest'ultima. A questo proposito è interessante un'affermazione di Lippmann, riferita all'aria del Mosè in Egitto ripresa nel Moïse et Pharaon, ma che può riguardare più genericamente situazioni simili: "Quel che sorprende maggiormente non è l'enorme discrepanza degli stati d'animo, nei quali la melodia viene cantata, ma piuttosto il fatto che questo atto di violenza passi del tutto inosservato: la melodia in nessuno dei due casi appare fuori luogo; indifferente alle parole, che le sono affidate, essa dispiega il suo slancio".20 Ora, se è vero che la stessa melodia, cantata da Elcia con le parole del Mosè in Egitto la sentiamo come una tipica aria di furore, cantata da Sinaïde nel Moïse et Pharaon diventa un'altrettanto tipica aria di gioia, questa dualità di sentimenti riferiti alle stesse note, esclude che la melodia sia "indifferente alle parole che le sono affidate", ma anzi accentua la sensazione di un suo adattamento alle parole sotto il pentagramma, parole che determinano l'"affetto", per dirla con un termine settecentesco, che in quel momento è rappresentato sulla scena. Questo meccanismo di capovolgimento espressivo, molto più frequente di quanto possa sembrare, non è certo limitato all'opera seria, lo troviamo anche in un'arte apparentemente molto lontana, pur se da qualcuno paragonata, almeno negli aspetti organizzativi, all'opera dell'Ottocento.21 Parlando di un famoso regista sovietico, Lev Vladimorovic Kuleshov, Umberto Eco scrive: "Kuleshov, riprendeva il 'grande' Mozhuchin mentre guardava fisso davanti a sé, non importa con quale espressione. Poi in fase di montaggio mostrava in controcampo un piatto di minestra. Lo spettatore era convinto che l'attore esprimesse intensamente una ardente brama di cibo. Poi Kuleshov cambiava il montaggio, e mostrava al posto della minestra un cadavere. Mozhuchin esprimeva, per chi guardava, orrore, tristezza e sgomento. La faccia era sempre la stessa, ma il montaggio l'aveva caricata di sentimenti, ovvero aveva indotto lo spettatore a proiettare sulla pellicola i sentimenti che si attendeva di vedere espressi".22 Se sostituiamo alla faccia dell'attore russo la musica per un brano d'opera; al piatto di minestra e al cadavere due testi che esprimono sentimenti opposti e al montaggio la composizione di un'opera, possiamo tranquillamente utilizzare le parole di Eco non solo per assolvere Rossini dall'accusa di insensibilità alle ragioni del dramma, ma anzi per riconoscere l'abilità di un compositore che sa come sfruttare le sue creazioni in situazioni diverse e financo opposte a quelle originali. In questi casi non si dovrebbe parlare di due testi che utilizzano la stessa melodia, ma di due arie (intese come insieme di parole e musica) che si servono delle stesse note. Le diverse interpretazioni "emotive" dipenderanno dalla situazione drammatica che in quel momento è espressa dalla vicenda e soprattutto dal diverso modo di interpretare il brano (interpretazione che può essere quella del cantante sulla scena ma anche quella dello studioso al piano o a tavolino), che deriva dalle relazioni sincroniche che si instaurano tra parole e musica e dai collegamenti diacronici con quello che precede e che segue il brano singolo. La parodia (o l'autoparodia) era un fatto usuale fino ai primi anni dell'Ottocento, quando nell'opera predominavano decisamente le relazioni sincroniche, quando cioè il brano singolo (praticamente l'aria) allacciava rapporti molto labili con il resto del dramma; via via l'uso della parodia sarà sempre più limitato, fino a scomparire, parallelamente alla crescita dei collegamenti diacronici, che faranno dell'opera un insieme sempre più unitario e perciò sempre meno smontabile in pezzi singoli, utilizzabili in altre situazioni in quanto facilmente svincolabili dai singoli "affetti" per i quali erano stati composti. Rossini, trovandosi in un periodo della storia dell'opera ancora non ben definito sotto questo aspetto, può tranquillamente partecipare, da protagonista, all'opera di progressivo cambiamento delle strutture formali, senza però rinunciare ad una prassi comune ai suoi tempi, confidando nella validità (bellezza) delle sue melodie e nella capacità dei suoi interpreti di far passare inosservato "l'atto di violenza". Che infatti passa inosservato anche in questa introduzione, dove non c'era più posto per un personaggio che invitasse alla prudenza; Néoclès deve mantenere le sue prerogative di indomito guerriero, e Hiéros sarà colui che con più intransigenza condurrà i greci al martirio. Per quanto riguarda la linea vocale, la semplificazione è generalizzata: basta cercare nel Maometto II le figurazioni virtuosistiche più appariscenti e confrontarle con Le siège; praticamente in tutti i casi si assiste ad un livellamento o ad una riduzione della florida scrittura napoletana. Hiéros canta le stesse note che erano di Calbo, ma i salti (che arrivavano alle due ottave) sono accorciati e come addolciti da piccole modifiche come questa (es. 48),
dove al doppio intervallo di decima (discendente e ascendente),
che a Napoli era seguito da una terza ascendente per poi cadere di due
ottave (vedi es.6), si aggiungono due intervalli discendenti che, se pure
fortemente differenziati (una seconda e una dodicesima), riducono le distanze
fra gli estremi formando un disegno più adatto alla minore agilità
della voce di basso rispetto al contralto. Anche negli esempi che seguono,
riguardanti la parte di Erisso-Cléomène, si può notare
la sistematica semplificazione di una linea vocale che sembra essere sottoposta
ad una sorta di "rasatura".
(es. 50)
(es. 51)
L'opera prosegue con la scena e terzetto: "Disgrace horrible", utilizzando alcune parti del terzettone napoletano, del quale vengono conservate le vicende essenziali, perdendo però tutta la complessità e la novità dell'originale. Oltre a gran parte del terzettone è eliminata anche la cavatina di Anna: "Ah che invan su questo ciglio", una presentazione solistica per la protagonista usuale per le scene italiane, che, oltre ad osservare la consuetudine, assolveva al compito di dare un'anticipazione, colta direttamente sulle labbra della protagonista, del contrasto amore-dovere sviluppato poi in tutto il corso dell'opera. Il carattere spiccatamente belcantistico della cavatina, difficilmente "riducibile", e soprattutto il rilievo più ampio che Rossini intendeva dare a Parigi all'elemento nazionalista rispetto ad un fatto privato come l'amore colpevole verso il nemico, giustificano pienamente l'eliminazione di questo a solo, che aveva un senso se inserito nell'alternarsi di sentimenti opposti che caratterizzano l'eroina e che sarebbe apparso fuori luogo in una narrazione dove questi sentimenti, e soprattutto il loro alternarsi, sono esposti più sinteticamente. A Parigi vengono utilizzate solo quattro delle dodici sezioni del terzettone (oltre alla preghiera "Giusto ciel, in tal periglio", che sarà inserita nel finale dell'opera), e questa parte del rifacimento è particolarmente interessante in quanto si tratta di una sorta di riassunto dell'originale, che passa da 869 a 365 battute, ottenuto conservando l'ossatura drammatica e con solo qualche interpolazione di musica nuova nei recitativi. La scena utilizza le sezioni 1 e 2 del terzettone, inserendo anche il colloquio fra Cléomène e Néoclès che nel Maometto II precedeva la cavatina di Anna, ed è tutta nuova nei recitativi, mentre un arioso di 10 battute proviene dalla sezione 1. Il colloquio fra padre e figlia è molto più stringato e l'Uberto, signore di Mitilene, diventa uno sconosciuto Almanzor di Atene. Viene così eliminata la rivelazione di Erisso sulla menzognera identità del misterioso amante e risulta anche modificato il senso del terzetto che segue. Nel Maometto II era un tipico pezzo d'insieme che segue un colpo di scena (in questo caso la rivelazione che l'amante non poteva essere Uberto), ne Le siège manca la rivelazione inaspettata ma l'atmosfera di attesa è ugualmente ottenuta con le dure parole di Cléomène: "Si tu ne renonçois a ta coupable flâmme le courroux paternel retomberait sur toi!", dove quel "toi!" finale e il minaccioso indice che si presume puntato sulla scena verso l'inerme fanciulla troncano la discussione, cristallizzata nel terzetto seguente, identico alla sezione 3. L'allegro che precede la cabaletta finale utilizza parzialmente la musica della sezione 4 e sintetizza quello che nel Maometto II accade nelle sezioni 4-7-8-9-10. È infatti del tutto eliminata in questa sede la scena e preghiera nel Tempio, e del pari eliminata la richiesta di Anna di seguire i guerrieri alla rocca e il rifiuto di Erisso. Praticamente resta a Parigi la partenza dei guerrieri verso a rocca e la consegna di un pugnale a Pamira, arma che dovrà essere usata per non cadere viva nelle mani dei turchi. La cabaletta finale è identica al corrispondente pezzo napoletano, mentre la coda orchestrale è accorciata e modificata. In questa parte del rifacimento si possono già scorgere le linee essenziali che Rossini ha seguito nel passaggio da Napoli a Parigi. Il terzettone, ovvero la struttura più anomala dell'opera napoletana, viene praticamente eliminato: nella prima prova per un pubblico nuovo è preferibile puntare sul sicuro, senza insistere troppo in novità formali che erano più tranquillamente proponibili nella Napoli del 1820, già sedotta dal genio rossiniano. Nello stesso tempo questa riduzione d'audacia non porta ad un appiattimento, ad una mera limatura di punte troppo aguzze, ma consente di sviluppare con maggiore attenzione quelle caratteristiche che Rossini riteneva più utili per attirare il pubblico parigino. Quello che l'opera perde sul fronte del belcanto e delle audacie strutturali verrà compensato da una maggiore attenzione verso le vicende narrate nel libretto (ed ecco l'importanza attribuita all'elemento patriottico, che in quel momento era funzionale alla cattura dell'interesse del pubblico) e verso quel sincretismo spettacolare i cui esiti saranno poi visibili con maggiore chiarezza nell'epoca d'oro del Grand Opéra francese. L'opera prosegue con l'entrata in scena dei musulmani: marcia e coro, "La flamme rapide", identica a "Dal ferro, dal foco", e l'arrivo del conquistatore, presentato con un recitativo, nuovo, che lo fa apparire più un intelligente estimatore dell'arte che un feroce guerriero:
Guerriers, relevez-vous: au sein de ces remparts, Respectez ces palais, ces prodiges des arts; Je veux y graver ma conquête, Je veux, à la postérité, Qu'ils recommandent ma mémoire: Sans les arts, frères de la gloire, Il n'est point d'immortalité.
con il corrispondente originale (vedi es.25). Per il finale del primo atto si può fare un discorso simile a quanto detto per il rifacimento del terzettone. Anche in questo caso si assiste alla riduzione di una struttura complessa in un pezzo più breve e costruito in maniera più lineare e convenzionale, oltre ad un drastico accorciamento dei due pezzi, che vengono entrambi praticamente dimezzati: nel primo si passa da 867 a 365 battute, nel secondo da 855 a 414. Nello schema che segue si può osservare la struttura e le derivazioni dei due finali.
La scena fra Maometto e il suo luogotenente resta pressoché inalterata nel testo, ma quello che a Napoli era un semplice recitativo diventa a Parigi quasi un arioso, con l'introduzione di un tema (es.53),
elegantemente suddiviso fra gli archi, che sottolinea la nostalgia del conquistatore per quel viaggio in Grecia sotto mentite spoglie, che gli aveva permesso di conoscere una fanciulla ancora ben viva nel suo ricordo. Il libretto napoletano era a questo punto più sfumato, Maometto si lasciava semplicemente sfuggire un sospiro nominando Corinto, mentre nel testo francese, così come la musica esplicita la rimembranza, il ricordo è espresso con più precisione ed impone già un addolcirsi della crudeltà del vincitore:
Se montra dans Athène à mon oeil enchanté, Je marche vers Athène et mon bonheur commence. Ami, j'adore ses appas, Son souvenir m'ordonne la clémence; Il secondo atto si apre con la scena e aria "Du séjour de la lumière" un pezzo ancora una volta costruito come un sapiente collage di brani della versione napoletana, utilizzando parti del finale e la cabaletta dell'aria di Calbo "Non temer, d'un basso affetto", soppressa a Parigi. Il maestoso iniziale: "O patrie infortunée" in mi maggiore, che utilizza il corrispondente brano napoletano, è inserito, oltre che sul libretto stampato in occasione della prima, solo in due spartiti per canto e pianoforte, fra i quali la prima edizione del 1826 edita da Troupenas. L'omissione di questo pezzo già nella partitura stampata l'anno successivo dallo stesso editore, fa presumere che il taglio sia stato deciso dopo le prime rappresentazioni, anche se non è conosciuta la ragione che ha dato luogo alla soppressione tout court di un brano, senza tenere conto che la mancanza dell'inizio in mi maggiore spezza la simmetria tonale di un numero che, peraltro, offre diversi spunti interessanti nell'analisi del lavoro di ricucitura formale e musicale effettuato da Rossini nell'operare il rifacimento. Siamo infatti di fronte ad un pezzo formalmente molto lineare: un recitativo iniziale (in la minore) e un aria divisa in tre sezioni, due delle quali, il maestoso poi soppresso e l'andantino in sol maggiore, compiutamente solistiche, e una terza, la cabaletta in mi maggiore, con l'intervento del coro. La struttura non evidenzia dunque particolari motivi di interesse, ma un confronto con i corrispondenti pezzi napoletani rende evidente come Rossini si sentisse svincolato dalla necessità di comporre un'opera più "moderna" rispetto alla sua produzione italiana. Se a Napoli il maestoso "Si, ferite" e l'andantino "Madre a te che sull'empireo" erano inseriti in un numero di vaste proporzioni e molto articolato, a Parigi siamo all'inizio di un atto ed è perciò indispensabile comporre un recitativo accompagnato, dall'inevitabile sapore di "opera seria", che ha fra l'altro il compito d'informare lo spettatore sullo stato del dramma. Dopo le due sezioni riprese integralmente da Napoli l'aria termina con una cabaletta che utilizza la terza sezione dell'aria di bravura di Calbo, della quale è ripreso in pratica solo il tema iniziale in quanto la presenza del coro, e la diversa situazione drammatica, impongono dei cambiamenti che però non toccano la caratterizzazione virtuosistica della linea solista; come se Rossini avesse voluto lasciare integra almeno una parte del brano napoletano, più legato ad una visione accentuatamente belcantista della linea vocale, altrimenti molto sacrificata, almeno sulla carta, a Parigi. Dal punto di vista drammatico questa scena riprende la situazione d'apertura del secondo atto napoletano, ovviamente modificata in funzione delle diverse scelte musicali. A Napoli l'atto si apriva con un coro di donne: "È follia sul fior degli anni", che invitava Anna a cedere alle lusinghe del vincitore, seguito dalla scena e duetto: "Anna, tu piangi", che iniziava con un breve recitativo di Anna, affranta dal vedersi nel campo nemico, alla mercè di un amante che ha ora assunto le minacciose sembianze di un feroce conquistatore. A Parigi questo recitativo viene ampliato e posto all'inizio dell'atto, mentre l'esortazione a cedere del coro, con parole diverse, viene spostata all'interno della cabaletta che conclude la scena; una elegante rimescolatura di situazioni drammatiche, parole, musica vecchia e nuova, che dimostra l'estrema duttilità di una struttura che si presta agli incastri più svariati senza dar luogo ad incongruenze o forzature. Anche in questo caso vi è una differenza fra la prima edizione del libretto e la partitura Troupenas: nel primo il coro, come si è visto, riprende il senso del testo utilizzato nel Maometto II:
Ah! dissipe ton chagrin! Il vient...couronne sa tendresse, Et ne verse plus de pleurs; Monte au trône, sauve la Grèce, Mets un terme à ses malheurs. Pamira
Choeur
Quel bruit, ah contre leur furie Rien ne peut nous secourir O mes frères, ô ma patrie L'heure approche, il faut mourir Tant de costance et de courage Gran dieu merite ton secours A la Grèce ô doux présage Tu rendras ses plus beaux jours Anche il pezzo che segue, scena e ballata: "L'hymen lui donne", è tratto dalla versione veneziana. La ballata riprende infatti integralmente il coro "In oriente la bell'aurora", a Venezia inserito subito dopo l'introduzione, che a sua volta era tratto dal coro "Dell'oriente l'astro del giorno" dell'Ermione. È questo un tipico pezzo di riempimento, che trova in ogni versione una diversa collocazione con musica praticamente identica e versi che si adattano alla situazione; ancora una volta Rossini riesce a spostare un tassello del mosaico facendolo combaciare perfettamente con quanto è intorno, senza sbavature che possano far pensare di non trovarsi dinnanzi ad una creazione ad hoc. D'altronde in questo caso il musicista si è limitato a riprendere un pezzo vecchio ricucendolo sopra nuove parole. È allora interessante vedere le varie versioni del testo, che danno modo di osservare un lavoro di copiatura creativa (e funzionale) che si inserisce come parte integrante nel rifacimento dell'opera intesa come insieme unitario di parole e musica.
In tutti e tre i casi il senso dei versi rimane lo stesso: una esortazione a dimenticare eventi o situazioni negative e a gustare ciò che di piacevole offre il presente; il cambiamento dei versi, che lascia inalterato l'"affetto", è funzionale al mutare delle situazioni esterne che costringono il librettista a modificare ciò che il musicista, alle prese con un materiale praticamente scevro da significati precostituiti, può tranquillamente lasciare immutato. I due successivi Airs de Danse hanno una struttura praticamente identica: un'introduzione in tempo lento (lento la prima, maestoso la seconda) e una sezione in tempo veloce (allegro la prima, allegro moderato la seconda) suddivisa in un tema, tre episodi, ripresa del tema in crescendo e cadenze finali; l'unica differenza rilevabile è nella ripresa del tema: nel primo pezzo è preceduta dalla stessa cadenza che divideva la prima esposizione del tema dal primo episodio, mentre nel secondo la ripresa segue immediatamente il terzo episodio, La musica della seconda danza è stata riutilizzata, molto probabilmente non da Rossini, nella cosiddetta sinfonia de Il viaggio a Reims, a lungo considerata sinfonia dell'opera omonima, anche se nessuna cronaca coeva la menzionava parlando della prima opera scritta da Rossini in Francia, la cui recente ricostruzione a seguito del ritrovamento di materiali autografi inediti ha permesso di accertare definitivamente l'estraneità nei confronti dell'opera di un pezzo con tutta probabilità apocrifo.24 Le danze sono situate all'incirca a metà dell'opera e, quasi simbolicamente in quanto pezzo tipicamente "parigino", ornano la parte della versione francese meno toccata da prestiti derivanti dall'originale; dei sette numeri, comprese le danze, che restano (tre nel secondo e quattro nel terzo atto) solo uno, il terzetto: "Celeste providence", è ripreso integralmente dall'edizione napoletana, quattro sono completamente di nuova composizione, e due contengono solo alcune sezioni non originali. Dopo le danze viene il momento della parte religiosa della cerimonia nuziale; mentre sulla scena è introdotto un altare, il coro canta un inno: "Divin prophête, entends nos voeux" in do maggiore, il primo numero vocale integralmente nuovo che incontriamo nella versione parigina. Il pezzo ha il gusto tipico dell'invocazione religiosa: una corposa introduzione orchestrale (38 battute sulle 73 totali), affidata alle arpe sostenute da violoncelli e contrabbassi, con il successivo inserimento degli altri archi e dei fiati senza variazioni nel ritmo e sempre "sotto voce", seguita dal coro che riprende il tema con quattro frasi di quattro battute alternate fra tonica e dominante e una cadenza con fuggevoli ripiegamenti sulla relativa minore della dominante. L'uniformità ritmica e dinamica è rotta da frequenti alterazioni cromatiche e modulazioni di passaggio, subito ricondotte all'arpeggio di tonica. La battuta 10 offre una piccola finezza armonica (es. 54):
l'uso dell'enarmonia fa sì che ciò che nella prima arpa sembra una triade diminuita di sopradominante, divenga nella seconda una settima diminuita sul secondo grado alterato (anche sensibile della relativa minore di dominante); ambedue le alterazioni (o modulazioni) momentanee risolvono sulla tonica che porta quindi alla settima di dominante: l'orecchio avverte una leggera increspatura mentre l'occhio è attirato da quel mi bemolle-re diesis, che sembrano un impertinente inserimento nel fluire ieratico dell'inno. La cerimonia è interrotta bruscamente dall'entrata in scena di Néoclès, catturato mentre tentava di introdursi nel campo nemico cercando disperatamente Pamira. Inizia così il finale II, un brano composto interamente ex novo, a parte un tema nel concertato finale che è ripreso dalla sinfonia e deriva dalla Messa di Gloria. Siamo di fronte al pezzo "nuovo" più lungo e articolato della versione francese, un finale molto dinamico, durante il quale l'azione continua e i fatti che accadono, pur se in gran parte fuori scena, determinano le azioni ed interazioni dei personaggi presenti sul palcoscenico. La struttura musicale è la seguente:
Mentre la partitura Troupenas e gli spartiti italiani si limitano a riportare il brano con la dicitura: Recitativo e Finale, lo spartito Troupenas per canto e piano suddivide il pezzo in: Recitativo, Terzetto e Finale, rispettivamente i numeri: 1, 2-3-4, 5-6-7. Questa suddivisione ha un senso logico in quanto rispecchia le due sezioni principali del finale, ma ha il difetto di non rispettare il senso tonale del brano, che in una visione unitaria inizia e si conclude nella medesima tonalità. Nel recitativo iniziale entra in scena Néoclès, che interrompe le ormai inevitabili nozze fra l'ansioso Mahomet e la riluttante Pamira con parole orgogliose che rivendicano il coraggio dei greci, vinti ma non domati, e accuse contro il tradimento di Pamira.
Tandis que Pamira par ses chants d'allégresse, Accueille un vainquer flétrissant...
un motivo che coniuga sapientemente lo slancio del primo inciso con il ripiegamento cromatico delle note che seguono. Alla battuta 81 il tema viene abbandonato per lasciare il posto a frasi che culminano in una scala ascendente di terze a due mentre Mahomet si limita ad una funzione di basso armonico. Il terzetto è costruito su un testo praticamente identico per i tre personaggi in scena:
Il est son frère! Sa voix si chère De ma colère Doit le sauver. Pamira
Néoclès (à part)
Mon amour expire, Vengeons nos affronts, Palmes du martyre, Ombragez nos fronts. La decisione di Pamira di staccarsi dall'amato per riunirsi ai suoi si "sente" nella sezione che inizia a battuta 81 (es.56),
nella quale la protagonista femminile e Néoclès cantano lo stesso tema e Mahomet è tenuto chiaramente da parte, con una funzione di riempimento armonico lontana dallo slancio vocale dei due greci. Questo uso degli ensembles come luoghi deputati alla contemporanea espressione dei sentimenti diversi attribuibili ai personaggi in scena è uno dei lasciti più evidenti dell'opera buffa, che ne faceva di solito il momento in cui si raccoglievano le fila di avvenimenti precedenti interpretati in modi diversi dai vari protagonisti, con l'insorgere di quegli equivoci che erano un po' il sale della comicità del melodramma giocoso e, in fin dei conti, della comicità tout court: da Plauto a Shakespeare a Feydeau, da Laurel e Hardy a Totò, dalla Serva padrona a Così fan tutte a Le Comte Ory. L'opera seria impara dall'opera buffa questa capacità della musica di esprimere contemporaneamente sentimenti diversi e se ne serve essenzialmente in due direzioni: nell'elaborazione di sempre più complessi finali d'atto ed in pezzi a più voci che, sorretti o meno da testi corrispondenti, utilizzano temi e strutture musicali diverse, permettendo all'ascoltatore di cogliere con chiarezza dal tronco della struttura del pezzo i rami corrispondenti alle individualità rappresentate dai singoli personaggi. L'esempio più famoso, e forse anche più compiuto, di questa seconda direzione è senz'altro il quartetto dell'ultimo atto del Rigoletto, perfetta esemplificazione di questa capacità, propria della musica, di dire più cose contemporaneamente senza compromettere, anzi arricchendo, l'intelligibilità del dramma. Dopo una cadenza virtuosistica di Pamira e Néoclès si passa alla seconda sezione del terzetto: allegro in la maggiore; un pezzo di passaggio dove Pamira consuma le ultime incertezze tra Mahomet che la esorta all'imeneo e un Néoclès che le rammenta i doveri di greca e di figlia. L'andantino in do maggiore che segue l'allegro inizia con un lungo a solo di Mahomet, che (sarà l'ultima volta) cerca ancora di convincere Pamira con la tenerezza e le profferte d'amore; un brano sostenuto da delicate figure ascendenti affidate alternativamente a flauti, clarinetti, oboi, fagotti e corni, con una soavità non usuale per l'accompagnamento di una voce di basso, soprattutto poi per un basso che dovrebbe essere la personificazione del "cattivo" nell'economia del dramma. Mahomet invece, a Parigi come a Napoli, è un personaggio dipinto a tinte delicate, un guerriero che alla vista dell'amata perde senz'altro i connotati feroci del conquistatore sanguinario e, per l'intera opera, tenta di vincere le resistenze di Pamira utilizzando tutte le armi non belliche a sua disposizione, attirando su di sé anche le ire dei compatrioti, infastiditi dalle esitazioni del loro capo così stranamente soggiogato da una donna. Questo sviluppo non a senso unico del personaggio di Mahomet è un tema sotterraneo nell'opera, contrapposto all'intransigenza di Cléomène/Erisso, che nemmeno per un attimo abdica dalla sua funzione di granitico difensore della patria, condannando senza appello la figlia che si concede qualche incertezza davanti ad un amore personale che rischia di sopraffare l'amor di patria. Le ultime parole dell'assolo di Mahomet: "Couronne enfin la flamme / d'un amant, d'un vainquer", con un fortissimo a piena orchestra che sottolinea la forza di quel "d'un vainquer", sono seguite da un disegno a note ribattute dei violini primi che accompagnerà con minime variazioni il resto dell'andantino. Come nella prima sezione del terzetto, Pamira e Néoclès utilizzano le stesse figure melodiche, ma questa volta è Mahomet che conduce il gioco ripetendo il tema enunciato all'inizio del brano. L'inizio del finale vero e proprio: allegro in do maggiore, interrompe la sezione "privata" del pezzo per lasciare spazio agli avvenimenti che incalzano, preludio al sacrificio finale dei vinti. Entra in scena Omar, che annuncia la ripresa delle armi da parte dei guerrieri greci, unitisi alle loro donne nell'ultima difesa sulle mura della cittadella. Alla vista dei compatrioti ormai votati al martirio (annunciato da una didascalia da "teatro nel teatro": "le rideau du fond se leve, et laisse voir la citadelle couverte de femmes et de guerriers armés") Pamira lascia cadere gli ultimi dubbi e sceglie definitivamente, in una scena che riassume telegraficamente gli stati d'animo dei protagonisti:
Pamira O remords! Mahomet O délire! Néoclès Pamira!... Pamira Je t'entends, et mon amour expire
Demain cherche Corinthe et ne la trouve pas.
caratterizzato da un accentuato dinamismo e basato sull'alternarsi di note legate e staccate, che, lasciato inalterato nelle parti vocali, viene successivamente presentato dagli archi variato con note ribattute e staccate (es.58).
Il terzo atto esordisce in bellezza, riprendendo uno dei brani più affascinanti dell'edizione napoletana: l'inizio orchestrale della scena e aria "Non temer, d'un basso affetto", già utilizzato nella sinfonia della versione veneziana. Anche a Parigi questa sorta di preludio sinfonico precede l'aria di Néoclès (Calbo), ambientata in un sotterraneo con le tombe della città assediata, ma la costruzione del pezzo è un mélange fra i due brani delle versioni italiane dell'opera nelle quali compariva l'introduzione orchestrale. Versione napoletana:
Versione veneziana:
Versione parigina:
La versione veneziana riprendeva, oltre all'introduzione, il coro omonimo del finale napoletano e, dallo stesso finale, alcune frasi del recitativo di Anna; a Parigi resta inalterata l'introduzione, il recitativo è nuovo e la preghiera si serve della musica del coro "Nume, cui 'l sole è trono". La presenza dell'aria di Néoclès si riallaccia alla struttura dell'originale, ma l'aria di bravura del contralto è sostituita da un'aria nuova per tenore, ovviamente molto distante dal pirotecnico belcantismo presente nel pezzo napoletano, che rivela il gusto della ricerca di nuove articolazioni all'interno di quel "numero" (l'Aria) che aveva alle spalle la lunga tradizione dell'opera seria ed una quasi altrettanto lunga storia di cambiamenti strutturali, che l'aveva reso sempre più aderente alle nuove esigenze musicali e drammatiche dell'opera. D'altronde la continua evoluzione della "solita forma" all'interno dell'opera seria dava modo ai compositori di cercare, e trovare, sempre nuovi modi per costruire quei luoghi deputati, pur sempre obbligatori, che risultavano tasselli indispensabili per la costruzione di quel multiforme mosaico che è l'opera lirica. I primi tre decenni dell'Ottocento, in pratica l'epoca del predominio rossiniano nel mondo del melodramma, sono forse stati il periodo in cui l'autore di un'opera aveva più libertà di espressione all'interno di canoni compositivi che avevano ormai allargato le rigide maglie precedenti, ma senza quell'ansia di novità ad ogni costo che, avvertita dall'ancora giovane ma ormai in vetta compositore pesarese, sarà, insieme ai problemi personali ampiamente descritti nelle biografie rossiniane, probabilmente la ragione più forte che porterà Rossini all'abbandono di quell'attività che lo aveva condotto ad una gloria ormai incontrastata. L'aria di Néoclès è un esempio tipico della libertà formale che era ormai concessa ad un compositore d'opera. Inizia con un allegro agitato in sol minore, segue un passaggio a sol maggiore che coincide con la seconda sezione: "un poco più lento" (pur sempre un tempo veloce se si considera che il tempo iniziale è un allegro agitato), c'è poi una ripresa abbreviata del primo tempo (questa volta però in sol maggiore, tonalità che resterà fino alla fine del brano), quindi la ripresa del tempo più lento e nel finale ancora una versione modificata di una parte dell'allegro iniziale, con una cadenza che porta senza soluzione di continuità al brano seguente. La prima sezione è inoltre suddivisa in una esposizione e ripresa separate da dodici battute, in un mi bemolle maggiore molto instabile, con accordi tenuti in orchestra che in pratica dilatano l'indicazione di tempo, non variata in partitura. Lo schema formale è libero e mantiene la propria mancanza di rigidità anche nelle riprese dei temi, ma soprattutto non pone vincoli per la parte vocale che, pur rispettando a grandi linee lo schema di fondo presente in orchestra, ha un andamento anch'essa molto libero, basato su frasi estremamente frastagliate che solo nella sezione lenta arrivano a coprire quattro battute. La struttura del brano, considerati anche i venti versi dell'aria, è la seguente:
Come si vede l'unica ripresa vera e propria è quella che riguarda il tempo più lento, mentre nelle altre tre sezioni si intersecano derivazioni non omogenee rispettivamente nella parte orchestrale e vocale; la sezione più interessante è la terza nella quale l'orchestra riprende le parti A (dimezzata) e B, lasciandone inalterate le strutture ritmiche, con modifiche nell'orchestrazione (nella prima sezione si alternavano viole e violini a distanza di un'ottava, mentre nella terza i due settori degli archi suonano insieme), e la parte vocale può invece considerarsi una sezione a sé stante, in quanto la derivazione delle sezioni I e II riguarda unicamente reminiscenze della linea melodica e i versi utilizzati sono gli ultimi quattro, presenti solo in questa sezione. A questo punto Rossini, quasi volesse prendere un attimo di respiro dopo le fatiche strutturali di quest'aria e prima di affrontare il finale dell'opera, inserisce l'integrale ripresa del terzettino "In questi estremi istanti" che diventa il terzetto "Céleste providence", un brano che non aveva trovato posto nella versione veneziana e che ricompare a Parigi praticamente inalterato. La scena che precede il terzetto è nuova ma ricalca fedelmente l'originale napoletano, del quale sono mantenuti sia la situazione drammatica che i ruoli dei personaggi. Dopo quest'ultima ripresa integrale di un pezzo appartenente alla versione originale, Le Siège si incammina su una strada che conferma il maggiore spazio dedicato a Parigi alla parte "pubblica" della vicenda, che doveva risvegliare l'entusiasmo dei parigini, sostenitori (da lontano) della lotta per la libertà del popolo greco. A Napoli il finale è tutto dedicato al sacrificio dell'eroina, che vede vincere i propri compatrioti e affronta con coraggio l'ira dei musulmani e del loro condottiero, al quale confida prima di uccidersi di essere sposa e non sorella di quel generale veneziano sottratto alla morte decretata da Maometto. A Parigi l'estremo sacrificio di Pamira è preceduto da un brano di estrema forza drammatica, nel quale il "vieillard gardien des tombeaux" Hiéros incita i compatrioti ad affrontare la morte con coraggio e dignità, ricordando loro il sacrificio dei greci alle Termopili e la vittoria di Maratona. La difficoltà di ricondurre questo pezzo all'interno di una precisa tipologia musicale è evidente se si consultano alcune fonti a stampa: nella partitura Troupenas abbiamo l'indicazione "Recit. Scène et choeur", nel libretto stampato in occasione della prima rappresentazione "Prophétie", che precede le parole "Marchons; mais, ô transports! O prophétique ivresse!"; nello spartito Ricordi in italiano "Scena ed Aria Jero". Nel recitativo Hiéros, seguito dagli altri greci, arriva nel sotterraneo dove il terzetto precedente aveva definitivamente sancito la riconciliazione fra Cléomène e Pamira e dove Néoclès e Pamira erano stati uniti sulla tomba della madre. Il vecchio guardiano dei sepolcri descrive senza mezzi termini la situazione: "...Déjà les musulmans s'avancent sur nos pas... / nous n'avons plus d'espoir que dans un beau trépas", Cléomène ribadisce la volontà dei greci di morire gloriosamente piuttosto che arrendersi ed invita Hiéros a benedire le bandiere greche, ricordando che "a cette mort auguste et saint / les trois cents immortels ne se refuisaient pas". La linea vocale affidata a Hiéros, costantemente intervallata da interventi del coro, si mantiene per tutta la prima parte del brano fra il recitativo e l'arioso, con una costruzione melodica che è una diretta derivazione dello stile vocale adottato da Rossini nella parte del protagonista del Mosè in Egitto, un uso della voce di basso che sfrutta la potenza ed il colore solenne di questa tessitura, che peraltro Rossini sa utilizzare molto efficacemente anche in colorature che sembrerebbero riservate alle voci più acute, come dimostrano alcuni brani non certo privi di virtuosismi della parte di Maometto (ed in misura minore di Mahomet). La melodia è quasi sempre tenuta entro intervalli limitati e condotta perlopiù per gradi congiunti, mentre l'orchestra assolve al compito di sostenere la voce del basso con potenti note ribattute a piena orchestra e tremoli nella regione bassa degli archi. La prima parte del brano: allegro giusto in do maggiore, è in pratica un'introduzione, nella quale si alternano le frasi di Hiéros e gli interventi del coro contemporanei agli accordi ribattuti dell'orchestra, che si conclude con l'annuncio della visione profetica del vecchio guardiano, sostenuta da accordi tenuti dagli ottoni e seguita dalle battute finali affidate al coro che si prepara ad ascoltare l'annuncio divino. La profezia: lento in fa minore, è assistita da un ostinato ritmo degli archi (sottovoce) nel quale si inserisce improvvisamente una lunga nota tenuta dei tromboni ("f" in diminuendo) seguita da un trillo dei violoncelli che risolve in una scala discendente di quinta. Il ritmo ostinato ed il colore grave in orchestra, mantenuti per tutta la prima parte del brano nel quale Hiéros profetizza cinque secoli di schiavitù per la Grecia, sono improvvisamente interrotti da un fortissimo a piena orchestra sulle parole "O patrie! Tous tes fils se levent à ton nom" (do maggiore) che introducono la visione del riscatto dei Greci, chiaramente riferita alla situazione che si stava vivendo realmente al tempo della prima rappresentazione dell'opera. L'ultima parte del brano: "Répondons a se cri de victoire", allegro brillante in fa maggiore, diventa così un inno dedicato alla lotta che in quei momenti i Greci stavano combattendo per la libertà; un inno basato su un marziale ritmo di 4/4 con un tema, proposto da Hiéros, (es.59)
che rimane praticamente inalterato per 153 battute, passando via via dai solisti, al coro, all'orchestra, con una dinamica che non va mai al di sotto del "f" e un'orchestrazione che sottolinea il carattere "eroico" del brano, concluso da una lunga coda orchestrale (44 battute) che utilizza lo stesso tema. Fu certamente questo il brano che infiammò di più il pubblico della prima, già politicamente partecipe degli avvenimenti greci e pronto a lasciarsi conquistare da un appassionato canto di, sia pur ipotetica, libertà, per di più costruito con il genio del miglior compositore del tempo. L'entusiasmo non fu comunque solo del pubblico, se in una biografia di Rossini scritta quasi trent'anni dopo si può leggere : "Après un petit trio, Céleste Providence, le même que celui de Maometto, dramatique jusqu'aux larmes, nous arrivons à la Bénédiction des drapeaux. C'est ici que Rossini s'élève aux plus hautes régions du lyrisme. Le grand prêtre, qui vient de bénir les drapeaux de ses frères, sent sa tête et son coeur s'exalter au feu des prophéties, et prédit dans un récitatif d'une grandeur émouvante les destinées de sa patrie. Les choeurs lui répondent par intervalles, et l'orchestre, serré, sévère, ténébreux et lumineux à la fois, accompagne avec une vérité saisissante ce beau chant de l'avenir. Un tutti éclate avec une étonnante énergie; les Grecs jurent de mourir en combattant; la fièvre de l'enthousiasme qui court dans les voix et dans l'orchestre, c'est l'amour de la patrie, c'est le sentiment de le vengeance, c'est l'ivresse du combat que ces choeurs expriment avec une sorte de délire en notes brûlantes. C'est imposant: voilà l'électricité musicale, voilà le génie!".25 La parte finale dell'opera è dedicata, anche se molto più succintamente rispetto alla versione napoletana, al sacrificio della protagonista femminile che segue la sconfitta dei greci e la distruzione di Corinto, annunciata dalla profezia di Hiéros, e non, come a Napoli, la vittoria dei veneziani contro gli infedeli. La preghiera di Pamira: "Juste ciel, ah! ta clémence", andantino in fa diesis minore, preceduta da un recitativo di nuova composizione, riprende integralmente la preghiera "Giusto ciel, in tal periglio" inserita a Napoli nel terzettone e che praticamente, in un ricorrente gioco di incastri drammaturgici e musicali, sostituisce la terza parte del rondò finale di Anna: l'andantino in sol maggiore "Madre a te che sull'empireo", che non era disponibile in quanto già utilizzato nell'aria di Pamira "Du séjour de la lumière", all'apertura del secondo atto parigino. Il finale III, con, in rapida successione, l'annuncio della sconfitta dei greci, l'irrompere in scena dei sanguinari vincitori, il suicidio di Pamira e l'attonita disperazione di Mahomet davanti alla morte dell'amata, utilizza materiale tematico del finale napoletano sia nei concitati interventi vocali, sia nella lunga coda orchestrale (101 battute) che chiude Le siège. La prima rappresentazione dell'opera, una serata lungamente attesa dai parigini che volevano finalmente vedere il grande compositore italiano cimentarsi con un'opera scritta in francese per il loro maggiore teatro lirico, fece registrare un grande successo di pubblico, riportato, con qualche perplessità, dai resoconti della stampa dell'epoca: "La cinquième scène du troisième acte, où Cléomène accable de reproches sa fille Pamira qui revient du camp des Musulmans, est admirable, paroles et musique, et a produit grand effet. La bénédiction des drapeaux grecs, la prière qui suit cette cérémonie, l'incendie et le sac de Corinthe qui terminent la pièce, pendant que d'un autre côté Pamira se poignarde, ont enlevé les suffrages. Ces effets sont neufs à l'Opéra, un autre nouveauté, qui n'a pas moins surpris les spectateurs, c'est d'entendre chanter. Les airs de Cléomène (Nourrit père), Néoclès (A. Nourrit), Pamira (mademoiselle Cinti), et Mahomet (Dérivis), sont d'une belle expression et bien détachés, sans ritournelles prolongées; des morceaux d'ensemble et le récitatif ont prouvé que l'ancien système de l'opéra français était aussi peu fondé dans ses motifs qu'il était monotone et assommant dans ses résultats. (...) Les auteurs ont été appelés à grands cris."26Tuttavia i parigini dovranno attendere ancora tre anni per assistere ad un'opera veramente "nuova", e sarà il Guillaume Tell, prima opera originale scritta per l'Opéra, che non rappresenterà però l'avvio di un nuovo ciclo creativo per il compositore italiano ma sarà invece l'inaspettata e prematura conclusione di una carriera al massimo del fulgore.
Frontespizio
Cap. 3 - Le siège de Corinthe
Cap. 4 - Mosè in Egitto
/ Moïse et Pharaon
|